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Chi berrà il nostro vino?

Cresce la vendita dello sfuso e nasce il problema dei prodotti che stanno invecchiando in carte e cantine


A volte tornano…quanto meno te lo aspetti. È questa la mia riflessione di fronte alla crescita dei punti vendita di vino sfuso. Una realtà esorcizzata dopo lo scandalo del metanolo, a metà degli anni ’80, poiché il Rinascimento del vino italiano, mosso anche da quel grave incidente, pareva aver strozzato la vendita di bianchi e rossi da botti e damigiane. All’improvviso il numero dei negozi pronti a riempire taniche e bottiglie cresce di giorno in giorno, così come aumenta l’offerta in rete da parte di siti e la nascita addirittura di catene in franchising.


Appunto la rete sembra essere il motore di questa ritrovata modalità di consumo, aggiornata con portali ad hoc e l’utilizzo di facebook. Pare sia in uscita anche una guida dei punti vendita, calcolati in circa 4mila. Segno evidente che la domanda dei consumatori di vino sfuso o in bag in box pare più vitale rispetto al vino in bottiglia (ovviamente tenuto conto delle abissali differenze di fatturato). 


i consumi soprattutto di vini strutturati e blasonati, nonché di fascia alta, sono in calo e la causa non può essere individuata solo nell’introduzione dell’etilometro.



Sta emergendo una tendenza verso vini “immediati”, più facili da bere, con gradazioni meno elevate, senza anni di affinamento in barrique, soprattutto adatti a tutto pasto per risparmiare. Chi berrà allora ciò che invecchia nelle carte dei vini, negli scaffali delle enoteche e nelle cantine museo? Russi, indiani, cinesi (e pure le aste), elementare Watson!


Sine qua non

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