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Adrià

Pausa di rivoluzione


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Le rivoluzioni, per definizione, non possono durare nel tempo; devono sconvolgere, distruggere il passato, creare il nuovo. Così è per Ferran Adrià, chef catalano che chiuderà il mitico Elbulli di Roses (Spagna) il prossimo 31 luglio. Per questo motivo il suo nome non compare nella lista dei 50 migliori ristoranti del mondo.

Mi sono seduto la prima volta al suo tavolo nel luglio 1998, poi altre otto volte, l’ultima il 27 marzo 2011. Non volevo in alcun modo perdere il finale anche se nel 2014 sorgerà al posto del ristorante una Fondazione aperta alla sperimentazione e alla creatività.

Sarà una nuova rivoluzione o una restaurazione? Chissà! Nel frattempo c’è un nuovo che avanza (la cucina nordica, i seguaci dello chef spagnolo), che non possiede gli stilemi di una rivoluzione culinaria, così come sono stati il linguaggio, la semantica, la grammatica di Ferran Adrià che ha preso, a suo tempo, le distanze dai maestri del passato (Escoffier, Girardet, Robuchon, Bocuse, Troigros etc ).

Il sistema di significazione del cibo che questo chef spagnolo ha proposto in questi anni non è stato riformista, come i piatti della nouvelle cuisine rispetto alla cucina “nazionale” francese, neppure glocale come la “fusion cuisine”, Ferran Adrià ha frantumato i codici della cucina del presente e del passato. 

La sua non è cucina, bensì meta cucina perché rappresentazione metaforica della forma e del gusto. La definizione “meta cucina” nasce dalla convinzione che le proposte dello chef catalano siano altro (se non addirittura fuori) di ciò che nella prassi comune è stata sempre definita “cucina”. 

Il gusto ha  ovviamente un  ruolo nella meta cucina di Ferran; lo sollecita eccome, ma non è l’unico fulcro nella costruzione dell’offerta gastronomica bensì è la sinestesia a diventare protagonista. Ciò porta il cervello e non la panza ad assumere il ruolo di player mentre si mangia.

La forma non ha l’importanza che molti altri chef ricercano attraverso un manierismo imperante: costruzioni shoccanti, cromatismi esasperati, barocchismi, birignao; i piatti di Ferran cercano di muovere l’immaginario del commensale per trasmettere segnali al cervello. E appunto sulla forma si allontana decisamente anche dalle proposte impossibili dei futuristi. I suoi aperitivi (dry martini, gin fizz, caipirinha), veri prolegomeni della cena, sorprendono, per la  inconsueta forma ma è la sensorialità recepita, dopo l’assaggio che diventa protagonista. 

La destrutturazione degli ingredienti, ricostruiti in maniera non convenzionale, ma rispettosi dei sapori e profumi originari, significa un messaggio preciso: “e’ il tuo cervello, sono i tuoi sensi che devono farti scoprire cosa stai assaggiando, non è la forma che ti deve condizionare”. Così si possono ricordare: il gelato al parmigiano, la polenta e la polvere di cacao ghiacciata etc, esempi del primo Ferran. C’è chiaramente una finalità di voler riportare all’origine per condurre il commensale al ricordo, all’archetipo di un sapore, di un profumo. E Ferran Adrià ottiene questo con diverse temperature, caldo freddo, consistenze sorprendenti fino all’uso frequentissimo delle mani invece delle posate, mettendo in gioco così anche il tatto. Il suo primo libro, non a caso, teorizzava l’esistenza di un sesto senso: la creatività, sulla quale ha incentrato tutta la  sua cucina.

Mentre “gustavo” la mia ultima cena, di cui ho apprezzato in particolare, tra i 46  assaggi, le proposte inusuali di cacciagione, ha avuto conferma che la creatività è come la rivoluzione: non può durare in eterno. Già  in passato lo chef del Elbulli offriva le sue proposte per soli sei mesi all’anno: i restanti li passava con il suo staff nell’ Atelier di Barcellona per sperimentare le sue nuove e scioccanti creazioni. E forse Ferran Adrià, da uomo intelligente, si è reso conto che forse il suo sesto senso aveva bisogno non più di soli sei mesi di riposo ma forse di qualche anno. Questa “stanchezza” creativa l’ho percepita nella mia ultima cena rispetto a tutte le otto precedenti. La rivoluzione di Elbulli dunque non sarà più permanente; resta però una straordinaria eredità, di cui le impronte saranno presenti nella cucina mondiale per lungo tempo. Attendiamo curiosi e fiduciosi il suo ritorno. 


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