Orisi: il vitigno "dimenticato" che torna a raccontare la Sicilia. La rinascita di un’uva che profuma di memoria
Vitigno dimenticato e oggi ritrovato, l'Orisi torna in etichetta: la Sicilia riscopre un’antica uva autoctona grazie alla tenuta Santa Tresa.
Alzi la mano chi ha mai sentito parlare dell’Orisi.
Non ti preoccupare se non l’hai mai sentito nominare: non sei il solo. Io stessa, da giovane appassionata di vino e territori, l’ho scoperto per caso e da quel momento non ho potuto fare a meno di approfondire. L’Orisi è una di quelle storie che si intrecciano con la terra, la ricerca, la memoria contadina e il coraggio di chi sceglie di salvare il passato per farlo diventare futuro.
Siamo in Sicilia, e più precisamente a Vittoria, nel ragusano. Qui, tra vigne curate con metodo biologico, sole abbondante e terreni sabbiosi ricchi di minerali, prende vita un progetto che sa di riscoperta e amore per la biodiversità: la rinascita del vitigno Orisi, uva antica, quasi estinta, che oggi – finalmente – può tornare a essere nominata in etichetta grazie all’inserimento nel nuovo disciplinare Terre Siciliane IGT.
Un’uva "fantasma" che ora ha un volto
Orisi non è solo un nome: è una varietà reliquia, nata da un’impollinazione spontanea tra Sangiovese e Montonico Bianco, e ritrovata in pochi esemplari nei vigneti più remoti dei Nebrodi. Quasi una leggenda, un vitigno sopravvissuto nei secoli lontano dai riflettori, custodito solo da chi – silenziosamente – ne conosceva il valore.
Dal 2003, grazie a un progetto sperimentale avviato dalla Regione Sicilia e coordinato dal vivaio regionale Federico Paulsen di Marsala, si è iniziato a mappare e proteggere questo prezioso germoplasma. Un lavoro da archeologi della vite, che ha consentito di riportare alla luce l’Orisi insieme ad altri vitigni autoctoni quasi dimenticati.
Ed è qui che entra in gioco Santa Tresa, azienda agricola biologica guidata da Stefano Girelli (trentino di nascita ma siciliano d’adozione) insieme alla sorella Marina. Con lungimiranza e una profonda passione per l’enologia e il territorio, hanno deciso di adottare l’Orisi e dargli una nuova casa in un piccolo fazzoletto della loro tenuta, esposto a nord, dove oggi prosperano 1.523 ceppi coltivati a spalliera su un terreno franco sabbioso, ricco di minerali e calcareniti.
"O" di Orisi: quando l’identità si legge tra le righe
Finora, il vino prodotto con quest’uva non poteva portarne il nome: la burocrazia enologica imponeva l’anonimato. E così è nata una bottiglia chiamata semplicemente “O”, simbolo misterioso e poetico di ciò che non poteva essere detto. Ma oggi, dopo anni di lavoro in vigna, microvinificazioni, sperimentazioni e affinamenti, il nome Orisi può finalmente essere scritto sull’etichetta.
Per me, che amo i vitigni che raccontano storie, questo è un piccolo grande miracolo. Un rosso Terre Siciliane IGP, in edizione limitata – appena 2.000 bottiglie dell’annata 2020 – che non è solo un vino, ma un atto d’amore per la memoria agricola della Sicilia.
Un rosso che parla di tempo e territorio
La vinificazione dell’Orisi segue un protocollo rigoroso, che lascia spazio alla natura e ai suoi ritmi: raccolta manuale a settembre, refrigerazione, fermentazione in botti di rovere di Slavonia, affinamento sulle bucce fino alla vendemmia successiva, e poi altri 4-5 mesi in acciaio. Il risultato è un vino profondo, elegante, dalla spiccata mineralità e un ventaglio aromatico che richiama frutti rossi, spezie, erbe mediterranee. Un sorso che sa di vento, di terra e di rinascita.
Un patrimonio che va oltre la bottiglia
Perché tutto questo è importante? Perché recuperare un vitigno significa anche preservare un pezzo di cultura, di biodiversità, di identità locale. L’Orisi non è solo un vitigno “salvato”: è un simbolo della Sicilia che non dimentica, che investe nella qualità, che crede nella forza della sua terra.
Come racconta Stefano Girelli:
«Abbiamo scelto di partecipare a questo progetto con orgoglio, perché crediamo che la valorizzazione dei vitigni antichi sia una vera forma di tutela della Biodiversità e dei territori storicamente vocati alla viticoltura».
E io, che ho avuto la fortuna di scoprire questa storia, non posso che essere d’accordo.
Per chi è questo vino?
Per chi cerca qualcosa di autentico, raro, non omologato. Per chi ama i rossi siciliani, ma ha voglia di scoprire nuove sfumature. Per chi crede che ogni vitigno abbia un’anima, e che nel calice ci debba essere anche una storia. L’Orisi è il vino perfetto per chi ama i dettagli, per chi si emoziona davanti a un’etichetta che sussurra qualcosa che vale la pena ascoltare.
Vuoi saperne di più sul progetto Orisi e su Santa Tresa?
Su cibovagare.it continueremo a raccontare storie come questa, in cui l’uva è solo il punto di partenza per scoprire mondi pieni di bellezza.
Perché ogni sorso può diventare un piccolo viaggio. E l’Orisi è una destinazione che vale la pena esplorare.