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Contro gli Chef

7 punti per rimarcare la tesi contro l'imperante cucina dell'invenzione che sta dilagando nella ristorazione italiana


Nonostante non abbia da ritrattare neppure una virgola di quanto pubblicato, desidero precisare che lo scopo dei miei interventi non era né stroncare Bottura, né incensare Jamie Oliver, ma un altro, ben più ambizioso proposito. Vale a dire, avvalorare le seguenti tesi:

1. Fatte salve le minoritarie voci fuori dal coro, il dibattito gastronomico italiano sulla ristorazione è viziato da provincialismo, ristrettezza di idee, autoreferenzialità: volontario ostaggio del paradigma della cucina creativa importato acriticamente dalla Francia che noi italioti, perenni vittime di un atavico complesso di inferiorità verso i cugini transalpini (non solo nella cucina, ma anche nell’enologia e nella moda), abbiamo adottato come verità apodittica, coi paraocchi tipici dei parvenus;

2.Quattro secoli di cucina francese avvalorano la distinzione tra grande cuisine e cuisine paysanne, radicata nella cultura e nell’immaginario gastronomico di quel Paese. Ma in Italia tale separazione è un’innovazione recente, sostanzialmente ignota prima dell’opera di Gualtiero Marchesi che ha di fatto inventato ex novo l’alta cucina italiana. Prima di Marchesi, i migliori ristoranti italiani erano giudicati Cantarelli e i Dodici Apostoli, di cui si può dir tutto fuorché facessero alta cucina. In conclusione, mentre in Francia il culto dell’alta cucina ha un fondamento storico plurisecolare, in Italia non ce l’ha, è solo l’ennesimo sintomo di sudditanza culturale rispetto agli invidiati cugini d’Oltralpe; 

3. Marchesi è stato un geniale innovatore in Italia, e altrettanto è stato Ferran Adrià in Spagna, ma entrambi hanno disastrato le rispettive cucine nazionali, diffondendo una genìa di modesti epigoni animati dalla nefasta convinzione che il valore di un cuoco si misura solo sull’inventiva, oscurando di conseguenza tanto il ruolo cruciale della manualità, sia quello ancor più importante della materia prima (vale a dire i due fondamenti irrinunciabili dell’arte culinaria);

4. Il primato dell’invenzione sta devastando la ristorazione italiana. Mettiamoci nei panni di un giovane cuoco che voglia affermarsi nel nostro Paese. Vorrà imparare a cucinare bene? Vorrà impegnarsi a scegliere la migliore materia prima? Nemmeno per sogno. Alla ricerca della vanagloria mediatica, cercherà di emulare i celebrity chef più in voga, con la volontà di stupire il pubblico, grazie a ricette sempre più astruse, per ingraziarsi l’attenzione delle guide pseudo-gastronomiche, alimentando la spirale deleteria e demenziale che è per l’appunto quella a cui stiamo assistendo;

5. Nel frattempo la vera cucina italiana sbanca in ogni angolo del mondo (quella rustica, tradizionale, senza grilli per la testa, declassata dalle guide nostrane al girone infero della trattorazione), risultando di gran lunga la preferita del pianeta: peccato che in Inghilterra sia divulgata da Jamie Oliver, negli Stati Uniti da Bastianich e Batali, insomma ovunque da chiunque fuorché da uno chef italiano. L’unica eccezione che io conosca è l’eccellente Bombana Otto e Mezzo di Hong-Kong che, guarda caso, non fa “cucina creativa”;

6. Il paradigma del celebrity chef star system, lungi dall’essere universale, è provinciale e minoritario. Vige incontrastato in Francia, ma non è di sicuro quello adottato dai buongustai del Giappone, il Paese che vanta la cultura gastronomica più raffinata del pianeta, dove i valori fondamentali sono e sono sempre stati la qualità della materia prima e la maestria della preparazione, entrambe impermeabili allo chef star system. Né lo è tra i gourmet degli Stati Uniti, il più ricco e variegato mercato gastronomico del mondo, dove tanto la più diffusa guida culinaria (la Zagat), quanto la più autorevole istituzione gastronomica (la James Beard Foundation) o le più ascoltate riviste di settore (come l'encomiabile Art of Eating) premiano indifferentemente i ristoranti creativi, quelli tipici, gli esotici, le steak house, i sushi bar e i micro-produttori di eccellenze (p. es. i produttori di formaggi artigianali), col presupposto che il verdetto finale spetti al palato del consumatore e non all’inventiva balzana dello chef; 

7. Se, come sentenziò Nietzsche, la verità non esiste, ma si confrontano solo punti di vista, lo chef star system è davvero la prospettiva obbligatoria su cui parametrare il giudizio del gusto? O forse esistono punti di vista alternativi, molto più degni di considerazione, quali per esempio la riscoperta del prodotto tipico e delle cucine regionali, il gusto dei sapori naturali, la difesa della biodiversità, il primato della materia prima? O per dirla nuovamente in francese (chissà che non abbia maggior presa sui pretesi gastronomi de noantri): la cuisine, c'est quand les choses ont le goût de ce qu'elles sont (Curnonsky).

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