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Made in Malga o Made in Bazar? Quando il marketing territoriale si svende al miglior offerente

Formaggi di malga ridotti a contorno in un bazar di tortellini e cannoli: il tradimento di un progetto culturale nato per tutelare le malghe.


Che cosa resta del sogno di trasformare Asiago nella capitale delle malghe europee?

Poco o nulla, se non un grande mercato travestito da evento di marketing territoriale.

made in malga

A ricordarcelo, con la consueta schiettezza, è stato Alberto Marcomini, voce autorevole del mondo caseario, che con un post al vetriolo ha fotografato ciò che oggi è diventato Made in Malga: un Luna Park dove il filo conduttore sembra essere tutto, fuorché le malghe e i loro formaggi.

«Sono stati molto bravi ad interpretare il vero significato dei formaggi fatti in malga… in un Luna Park davvero divertente» scrive ironico Marcomini, subito pronto a smontare la scenografia: «Ancora bravi! Avete capito come vanno le cose, ovviamente quando si è appoggiati dalle amministrazioni o dai consorzi. Ma che vergogna!».

made in malga

Il paradosso del marketing territoriale

Gli eventi di marketing territoriale dovrebbero valorizzare i prodotti identitari di un territorio, raccontarne la storia e stimolare nuova consapevolezza nei consumatori. In pratica, sempre più spesso, diventano vetrine indistinte in cui la parola chiave non è tutela ma profitto.

Il caso di Asiago è emblematico: un evento nato per celebrare le malghe e il lavoro faticoso, fragile e prezioso dei malgari, trasformato in un mercatone in cui il formaggio rischia di perdersi tra un banco di liquorini “di montagna” e una fila per la pasta ripiena.

«C’è qualcosa di male a fare un mercatone, una sagra di qualsiasi tipo? Assolutamente no! Ben vengano! Ma perché ostinare ad usare le parole come “fatto in malga”?» domanda Marcomini, evidenziando la contraddizione.

made in malga

Il tradimento di un progetto culturale

Marcomini ricorda come alla prima edizione di Made in Malga ci fossero solo i veri protagonisti: i casari, le malghe, i formaggi nati a mille metri d’altitudine. «Nella prima edizione di Made in Malga c’erano solo le malghe, ed erano doppio già in partenza di quante ce ne siano in questa fiera adesso», racconta. L’idea era di creare un osservatorio permanente delle malghe, un punto di riferimento europeo, capace di attrarre realtà dall’Italia e dall’estero e di costruire cultura.

Oggi, al contrario, assistiamo alla caricatura di quel progetto. Gli espositori di malga sono sempre meno, quasi nascosti. Il racconto della montagna e delle sue fatiche è stato sostituito dalla logica dei numeri: più banchi, più visitatori, più sponsor. Una strategia che fa gola agli organizzatori, certo, ma che impoverisce il valore identitario dell’evento e, di riflesso, del territorio stesso.

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Il rischio della “sagra di tutto”

C’è qualcosa di male in una sagra popolare, dove si mangia e si beve di tutto? Assolutamente no. Anzi, ben vengano. Ma chiamare una sagra generalista “Made in Malga” è un’operazione fuorviante, quasi fuffa semantica. Si confondono le idee al pubblico, si diluisce il messaggio, si offende chi davvero vive e lavora in malga.

Se davvero si vuole sostenere il comparto, bisogna dare spazio e voce ai giovani che ancora scelgono la vita dura delle malghe, ai casari che ogni estate si misurano con condizioni climatiche estreme, agli allevatori che difendono pascoli e biodiversità. «Le nostre malghe oggi giorno sono costrette a fronteggiare sempre più difficoltà e bisogna a tutti i costi sostenerle, non di certo con i gran bazar di questo tipo» ribadisce Marcomini.

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Un grido che non va ignorato

Dietro la polemica di Marcomini c’è una denuncia che dovrebbe interrogare istituzioni, organizzatori e consumatori. Le malghe non hanno bisogno di sagre mascherate, ma di politiche di sostegno, da affitti sostenibili, di progetti culturali veri e non da ristorantini mascherati da agriturismo, di una narrazione che restituisca dignità a un mestiere e a un paesaggio. Con serietà e profondità di analisi, magari pensando a valorizzare anche l'offerta turistica annessa.

Altrimenti il rischio è chiaro: “Made in Malga” diventerà soltanto un brand vuoto, un’etichetta svuotata di senso, buona per vendere tortellini e cannoli, ma inutile per salvare le malghe e i loro formaggi.

Meglio chiamare l’evento con il suo nome: un mercatino enogastronomico.

Le Malghe, invece, meritano racconti più profondi e arricchenti, capaci di trasmettere emozioni e conoscenza.... con "leggerezza, planando" sulle malghe "dall’alto".

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