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Gastro-tour in Sicilia

Pronti, partenza, via: si comincia da Palermo


Paesaggio, cibo, cultura: una trinità su cui il viaggiatore (che non è il turista) dovrebbe porre la barra all’inizio di ogni viaggio. Tanto più se Gastronauta. E soprattutto dovrebbe usare in luogo di una mappa, lo sguardo. Così ho pensato di ritorno da un tour Ta@buk in Sicilia a bordo di una Evoque Range Rover convertibile che mi permetteva appunto di scorgere in maniera più compiuta, di notare, mentre percorrevo i vigneti delle Terre Sicane, su un pilone di elettricità, un nido di cicogne, vuoto… Sono volato con loro verso l’Africa. Chi non sogna di volare!

Un tour che mi ha portato da Palermo a Salaparuta, a Santa Margherita del Belice, ad Agrigento, a Racalmuto, luoghi noti ai lettori di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, di Luigi Pirandello e di Leonardo Sciascia. E mentre macinavo chilometri ripercorrevo ciò che è scritto nel Gattopardo: la Sicilia da venticinque secoli porta sulle spalle il peso di magnifiche civiltà. Basterebbe quest’unica considerazione per spiegare in poche parole la gastronomia della grande isola mediterranea. Essa è frutto di una stratificazione culturale incredibile, quella stessa che vi ha prodotto capolavori architettonici e artistici invidiabili.
 

Pronti si parte da Palermo, a pochi metri da piazza San Francesco, un tempio del cibo di strada dove già, di mattina, fuoriescono gli odori dell’ Antica Focacceria: pane ca’ meusa, panelle, cazzilli, arancine (che a Catania diventano arancini al maschile), sfincioni. Addirittura con l’auto color arancio, ricca di frasi di scrittori sulla Sicilia che destano non poca attenzione, passo davanti alla storica trattoria “La Casa del brodo” (Dal Dottore), altro tempio della cucina popolare della città, dove la tazza del brodo, le patate con lo zafferano e il bollito sono il menu fisso da 120 anni. Non si può lasciare Palermo al mattino senza un dolce, così deviazione alla pasticceria di Salvatore Cappello per gustare un croissant al pistacchio.

Poi verso  Santa Margherita del Belice, un percorso dove il paesaggio offre un caleidoscopio di colori e di nuances, di vigneti e di oliveti, ma ahimè a Salaparuta, esplode lo stato di abbandono, una città fantasma a seguito del disastroso terremoto del 1968. Ancor più  emozione e commozione suscita un paese che non c’è più: Gibellina, sepolto prima dalla natura e poi dalla poesia (il Cretto) di un grande artista, Alberto Burri. Poco lontano Santa Margherita di Belice, con monumenti legati alla memoria di Tomasi di Lampedusa, tra cui un deserto palazzo dei suoi avi, i Principi Filangeri di Cutò. Sulle tracce dell’autore del Gattopardo però non trovo “il torreggiante timballo di maccheroni”, servito a Donnafugata la sera in cui Angelica viene presentata in casa  Salina. Già pensavo alle fragranze che si mescolano ed esaltano “il prezioso color camoscio”, ottenuto da un estratto di carne realizzabile solo nelle cucine dei Monzù, invece mi accontento di un formaggio raro, leggermente acidulo,“la vastedda del Belice”, un formaggio di pasta filata, ottenuto da latte delle poche pecore del Belice.

Il viaggio continua verso il territorio di Menfi, Porto Palo, Selinunte, la Riserva naturale del fiume Belice, dove sento un odore salino di mare e soprattutto di “ribollir di tini”, vista la presenza di famosi produttori di vino. Mi godo il tramonto del sole tra piante secolari di carrubo, da cui strappo un frutto (lo gusto voracemente, ritornando bambino) e gli olivi del Baglio San Vincenzo, dove scopro perché la cultivar si chiama “nocellara”. Chiaro: ha la forma di  noce e il suo olio ha sapore fruttato con un retrogusto di mandorla, carciofo e pomodoro che sposo nei pani, ottenuti con grani antichi di cui la Sicilia è la regione principe, a cominciare dalla tumminia. A cena gusto le busiate con pesto siciliano alle mandorle e, soprattutto lubrifico la mia golosità con il bianco mangiare di latte di mandorla (che bevo abbondantemente al mattino).

Si riparte destinazione Agrigento, la casa di Luigi Pirandello e la Valle dei Templi. Mi colpisce un cartello: “perché non adotti una capra Girgentana (in via di estinzione)” e sotto "il ritorno della capra nella Valle dei Templi" e, a pochi passi, un olivo rarissimo di seicento anni. Mi sono chiesto se produca ancora qualche oliva. Appena fuori dal sito archeologico, ci sono tanti locali turistici, ma il ristorante “Il re dei Girgenti”, mi ha fatto ricredere soprattutto per un piatto che mi ha ricordato Tomasi di Lampedusa, quando ne “La Sirena” scrive : “il mare: il mare di Sicilia è il più colorito, il più aromatico di quanti ne abbia visti; sarà la sola cosa che non riuscirete a guastare, fuori delle città. Nelle trattorie a mare si servono ancora i rizzi spinosi e spaccati a metà? Eppure sono la più bella cosa che avete laggiù, quelle cartilagini sanguigne, quei simulacri di organi femminili, profumati di sale e di alghe”. Quel piatto sono gli spaghetti ai ricci di mare, così magistralmente descritti dall’autore del “Gattopardo”.
 

Da Agrigento a Racalmuto, cuore della Sicilia di Leonardo Sciascia, uno scrittore che ho molto amato (Todo modo, l’ Affare Moro, il Mare colore del vino, A ciascuno il suo, Il giorno della civetta), così come i film tratti dai suoi scritti. Li ho rivissuti mentalmente e, soprattutto a lui, devo la scoperta su “La Contea di Modica” che ad Alicante (Spagna) si produce lo stesso cioccolato di Modica. Parlando con la gente nei bar di Racalmuto o con gli amici del famoso circolo Unione, ho percepito l’amore per questo scrittore; è un rivivere le pagine di “Le parrocchie di Regalpietra”. Un borgo comunque ricco di sorprese gastronomiche: i piatti squisiti della trattoria“Taberna” (pizza, stigghiole, lingua, filetto di maiale dentro la rete, macco con finocchietto, cavatelli alla norma, dolce di mandorle), i golosi taralli dolci (tradizionali di Racalmuto) e torroncini di pasta della pasticceria Parisi.

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